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Elaborazione dello stato di shock nel lutto

Tutti noi, abbiamo lutti non elaborati, che si sono accumulati nel tempo; riguardano sia la morte di una persona cara o un amico, sia la rottura di una relazione importante, la perdita della propria casa, del proprio paese, di un lavoro, un pensionamento o il fallimento di un ideale professionale, oppure la perdita di una parte del proprio corpo a seguito di una incidente o in conseguenza di una malattia o ancora la scomparsa di un animale da compagnia, fino ad arrivare alla terribile perdita di un figlio che non è nell’ordine di cose, anzi è impensabile, incomprensibile e ingiusta. In tutti questi casi, che costituiscono altrettanti traumi, perdiamo la fiducia in noi stessi e i nostri rapporti con il mondo si trasformano e divengono insicuri. Di fronte alla perdita di chi ci è caro, il dolore e la sofferenza sono indescrivibili, ma se non ci si fa aiutare, non se ne può uscire.

Queste perdite, il cui lutto non viene superato, le “ruminiamo” e ci impediscono di vivere. Senza elaborazione non finiremo mai di considerare inaccettabile ciò che ci è successo. Pertanto, è meglio affrontare, prima o poi, queste perdite che sono inevitabili nella vita di ogni essere umano, o quei cambiamenti a cui, siamo obbligati a adattarci. Farne una malattia, o anche peggio volerne morire, sarebbe una tragedia.

Spesso ci sommerge un oceano di lacrime, che non bisogna trattenere e conservare in sé. Tuttavia, piangere da soli non impedisce la somatizzazione. Bisogna elaborare il lutto per far guarire la nostra ferita e iniziare a cicatrizzarla. Non ci sono parole per esprimere la sofferenza legata ad un lutto, ma la società non ci aiuta; ci chiede di mantenere un contegno nel lutto, di non piangere, di ritornare subito come prima e in forma. Nondimeno, esistono parole per esprimere questo dolore , ma bisogna che siano comprese e ascoltate senza essere interrotte. Quando si blocca la parola, l’espressione dei sentimenti è bruscamente frenata e repressa; avviene anche che ci tormenti per un lungo periodo, come ogni funzione interrotta e incompiuta e resterà sia nella memoria corporea, sia nella mente, è il caso del lutto non elaborato. Anche se possiamo anche esprimerci senza parole mediante una presenza o un gesto affettuoso.

La nostra società, che non ha occhi che per la bellezza, la giovinezza, il successo e la fortuna, considera la malattia, la vecchiaia e la morte come tabù.

Scrive Nadine Beauthéac nel suo libro: Deuil: Comment y faire face? Paris, Seuil, 2002:

Far evolvere le cose in questo settore così tabù, e far si che ogni persona in lutto possa vivere la propria grande sofferenza e la propria lenta trasformazione personale diversamente che nella solitudine e nell’incomprensione.

Ognuno di noi deve sapere la natura di questa sofferenza, comprendere che altri hanno vissuto quel che si sta vivendo, intendere meglio i meccanismi del lutto, capire che questo fa soffrire terribilmente, che si può soffrire tutta una vita per una morte o per una perdita e che un tale vissuto rende fragile ogni cosa, ma che può, in seguito, renderci forti, una volta che il dolore sia elaborato.

Un tempo disponevamo di riti riparatori per la separazione e per il lutto: i genitori, gli amici, i vicini venivano a vegliare il morto e a dargli l’estremo saluto. C’erano vestiti neri, fiori e corone, le preghiere, gli addii, la sepoltura, una cerimonia: si faceva l’elogio del defunto. C’erano le visite, le lettere di condoglianze e di ringraziamento, le cene conviviali, durante le quali ricominciavano la vita sociale. Bere e mangiare insieme è un rito di solidarietà ricorda peraltro l’etnografo Arnold Van Gennep: si parla dello scomparso, se ne rievocano i bei momenti trascorsi insieme. Questa occasione di convivialità poteva consistere in un pasto familiare, in una semplice colazione a casa, in un ristorante o al bar nei pressi del cimitero. Era un momento importante, che ridava la carica, il modo da non ritornare a casa soli e con tristi pensieri. La convivialità, il fatto di essere insieme, circondati da persone che ci amano, può alleviare la tensione dell’addio e procurare un certo conforto. Nell’insieme, questi riti, che sono presenti nelle società primitive e tradizionali (Cfr. Louis – Vincent Thomas, Antropologia della morte, Milano, Garzanti, 1976) non vengono quasi più praticati ai giorni nostri.

Da molto tempo ci viene insegnato ad esercitare l’autocontrollo, la riservatezza, e a soffrire in silenzio e senza farne mostra. Il datore di lavoro francese concede solo due giorni a un genitore per il decesso di un figlio o di un coniuge, un giorno per la morte dei genitori e niente per un fratello o una sorella, quand’anche il codice assegni un giorno per il matrimonio di un figlio, tre per una nascita o un’adozione, quattro giorni per un primo o un secondo matrimonio. Manca dunque un riconoscimento dello stato di shock e dell’elaborazione che bisogna compiere per adattarsi a una nuova situazione. Una volta si portava il lutto per uno o due anni.

Ciò che si riporta dentro, in qualche modo riesce fuori e spesso in forma psicosomatica. Turbe psichiche originate da fattori emotivi e affettivi, asma, dermatiti, cistiti, infezioni genitali e gastro- intestinali, mononucleosi, mal di schiena, cefalee o malattie gravi come il tumore: a volte ci si ammala, e si muore persino di tristezza, per non averla potuta esprimere o per non aver appreso a vivere senza!

“La nostra gloria più grande non è non cadere, ma saperci risollevare ogni volta che cadiamo” diceva Confucio.

La logica di questo articolo è aiutare le persone a uscire dal lutto, ritrovare la propria pace interiore e serenità. Tramite alcune tecniche psicoterapeutiche si può imparare di vivere nuovamente, anche se in modo differente.

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